Un vampiro può ghermirti alla sprovvista ovunque tranne che a casa tua, dove non può entrare se non sei tu a invitarlo esplicitamente a varcare la soglia. Gli tocca restare per tutta la notte a sbavare sull’uscio, confidando che in un momento di distrazione tu esca in cortile a buttare la spazzatura.
Allo stesso modo, io non posso essere la tua coach se non sei tu a chiedermelo.
Perché?
Perché io non posso fare niente per te se da parte tua non c’è una domanda diretta di intervento e, alla base, un forte desiderio di cambiamento. Nemmeno se ti vedo in crisi e nemmeno se ti vedo in grande crisi.
A scanso di equivoci, un coach non è un soccorritore e una relazione di coaching non è una relazione di aiuto, per il semplice fatto che l’aiuto presuppone uno squilibrio di potere tra chi lo dà e chi lo riceve.
Viceversa, la relazione di coaching è un’assunzione di responsabilità tra due pari, tra qualcuno che si impegna a migliorarsi e qualcuno che si impegna a far migliorare l’altro, e in quanto tale può nascere solo da una libera scelta reciproca.
Il coaching è cioè un’opportunità per entrambe le parti, mai un obbligo o una costrizione, motivo per cui un coach – a differenza di un medico – può sottrarsi in qualunque momento alla domanda di intervento se intravede un insanabile conflitto culturale e/o morale tra sé e il potenziale cliente.
Insomma, tu puoi anche esclamare “avanti!” ma non è detto che io mi precipiti da te.
Magari preferisco restare in cortile col vampiro, che magari mi ha appena chiesto di rivedere insieme il suo piano d’azione.