Come si fa a capire se un coach è bravo sul serio?
Dalle sue domande.
Intanto, non deve avere paura di farle.
In riunione, in assemblea, in fila: si fa prima a cavare un dente che una domanda.
Questo perché le domande fanno apparire chi le pone poco intelligenti, infatti i sapientoni sono quelli che hanno già tutte le risposte.
Al coach quello bravo non interessa essere, e tantomeno sembrare, sapiente.
Al contrario.
Fa domande di continuo perché gli interessa scoprire quello che non sa o, meglio ancora, mettere alla prova quello che crede di sapere.
Esattamente.
Il coach quello bravo è alla ricerca di smentite, non di conferme.
Invece del “ecco, come immaginavo, avevo capito al volo,” rincorre il “appunto, non avevo capito un accidente, ero totalmente fuori strada”.
Non vuole avere ragione, vuole comprendere e verificare.

Il coach quello bravo, dunque, chiede.
Chiede cose che nessun’altro chiederebbe.
Per esempio, cose ovvie.
Non teme il sopracciglio alzato e lo sguardo perplesso, quando non innervosito, del suo cliente.
“Ma è cretino? Cosa me lo chiede a fare? Non ci arriva da solo?”
Vuole che sia il cliente ad arrivare. A una conclusione diversa da tutte quelle a cui è giunto finora.

Il coach quello bravo chiede cose antipatiche.
“Ma è stronzo? Perché me lo chiede? Perché deve farmelo dire?”
Perché dirle a voce alta, certe cose, cambia tutto.

Il coach quello bravo chiede cose che spesso suonano come delle provocazioni.
“Ma allora è veramente stronzo! Cosa vuole da me? Perché mi sfida così?”
È il suo lavoro far sentire scomodo il cliente, a farlo sentire comodo ci pensano già gli amici, il barista e il parrucchiere.

E poi chiede cose impegnative.
“Ma è pazzo? Non crederà davvero che io possa farlo?”
Sì, lo crede, nessuno crede nel potenziale del proprio cliente più di un coach, nemmeno la mamma del cliente.

E così via, in una spirale senza sosta di domande che esauriscono e tirano scemi, tipo quelle dei bambini di 3 anni.
Ma ormai il cliente lo sa.
Sta lì la bravura del suo coach.

Lorenza Annoying the Wooden Bear. Photo by Fabio Paracchini.