C’è una domanda di rito, tra quelle che un coach formula di solito verso la fine di una sessione di coaching, a cui praticamente nessun cliente riesce a rispondere.
Peggio, che praticamente nessuno riesce a capire.
Qui da noi, almeno.
Io stessa, la prima volta che mi venne rivolta dalla mia mentore – guarda caso made in UK – strabuzzai gli occhi e balbettai un imbarazzato “mmm, I can’t follow you, what do you mean?”
La domanda, che traduco dall’inglese, suona più o meno così: “in che modo ti garantirai di render conto a qualcuno che stai facendo quello che hai pianificato di fare?”
Ora, questa domanda per noi è incomprensibile perché sottende un concetto che qui da noi non esiste.
Quello della accountability.
E che questo concetto non esista è dimostrato dal fatto che devo ricorrere all’inglese per parlarne, il corrispettivo italiano infatti non c’è.
Le parole responsabilità e affidabilità, con cui di solito si cerca di rendere l’idea, l’idea la incasinano e basta.
L’unica è imbastire una traduzione di questo tipo: l’accountability è l’obbligo che ci prendiamo di rispondere delle nostre azioni a qualcuno.
Ora, se un concetto ha bisogno di una traduzione lunga e tortuosa per essere inteso in una cultura diversa da quella che l’ha originato, come può in quella cultura esserci il comportamento che lo agisce?
Appunto, non c’è.
E questo è il motivo per cui noi italiani siamo così bravi a non essere accountable.
Esempio A
L’ACCOUNTABILITY LA CONOSCO MA NON LA PRATICO.
Tizio numero 1 chiede preventivo a Tizio n°2.
Tizio n° 2 investe tempo, risorse ed energie per mandare preventivo personalizzato a Tizio n°1, a cui raccomanda di dare feedback entro tot giorni.
Tizio n°1 risponde che senz’altro, ci mancherebbe, farà sapere in ogni caso e oplà, non si fa mai più vedere né sentire. Se sollecitato, ciurla nel manico.
Tizio n° 1 non si ingrifa neanche, tanto gli succede di continuo, e a dirla tutta fa così anche lui.
Esempio B
L’ACCOUNTABILITY MI OFFENDE.
Caia n° 1 chiede a Caia n° 2 di portare a termine un task entro una deadline concordata.
Caia n° 2 acconsente senza problemi, anzi, con entusiasmo.
Quando Caia n° 1 chiede a Caia n° 2 di aggiornare Caia n° 3 con cadenza giornaliera sulle attività intraprese, Caia n° 2 si risente all’istante. Cos’è? Non si fidano di lei? Non esiste al mondo che le si chieda di produrre evidenze del suo operato. Se ha detto che lo farà, lo farà. A quel punto, pertanto, non lo fa: millanta intoppi vari e buca la consegna. Tra sé e sé è fiera di avergliela fatta vedere, a Caia n° 1 e n° 2. La prossima volta ci penseranno due volte a metterle i bastoni fra le ruote. (!)
Esempio C
LA SELF ACCOUNTABILITY E COME TE LA AGGIRO.
Sempronia assume un impegno con se stessa: quello di meditare 15 minuti al giorno tutti i giorni. Lunedì rispetta l’impegno, martedì anche, mercoledì salta ripromettendosi di recuperare giovedì, giovedì salta ancora e se la racconta così: la regola non è veramente fare 15 minuti di meditazione al giorno, è meditare per un totale di 105 minuti a settimana, quindi tra venerdì e domenica metterà insieme 75 minuti e l’impegno sarà rispettato. Venerdì medita solo 5 minuti e si appunta una nota mentale: questa settimana non conta, era una prova generale, ergo per sabato e domenica è già assolta. Il lunedì successivo rimanda e rimanda e rimanda fino a concludere che la meditazione è sopravvalutata, i suoi benefici discutibili e lei può benissimo farne a meno, proprio come ha sempre fatto finora.
Esempio D
ACCOUNTABILITY? NO THANKS / YES PLEASE.
Io, la coach: Cosa ne dici di usarmi come tua accountability partner, e di rendicontarmi la tua to do list ogni x giorni?
Lui, al termine della prima sessione: Gentilissima, ti ringrazio ma sto apposto così. Io mi rendiconto da solo.
Lui, al termine della terza sessione: Guarda, te l’avrei chiesto io, ché rendicontarmi da solo non ha funzionato granché.
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