“We don’t see the world as it is, we see it as we are” scriveva Anaïs Nin.
Eggià.
Eppure, non le conto più le volte in cui mi sento dire che non c’è niente da fare, che “le cose stanno così”.
Sorry.
Le cose non stanno così.
Quello che sta così è il nostro modo di vederle.
E persino se siamo in cento, mille o milioni di milioni a vedere le cose così, questo non necessariamente le rende più vere.
Per dire. C’è stato un tempo in cui tutto il mondo pensava che fosse il sole a girare intorno alla terra, e questo non ha reso più vera la teoria: l’ha resa diffusa, l’ha resa condivisa, l’ha resa imperante, ma non l’ha resa più vera.
Eppure, quale che sia il tema, tutti noi abbiamo l’arroganza di ritenere che i nostri pensieri siano validi.
Non nel senso di utili o efficaci, magari.
Purtroppo nel senso di esatti, rispondenti al vero, corretti, giusti. (La sentite anche voi, la puzza mefitica della morale che si insinua ad arricciarci il naso e a farci sentire superiori?)
E il patatrac è fatto: eccoci convinti che i nostri pensieri siano veri, corrispondenti alla realtà là fuori, cioè fuori dalla nostra testa.
E invece.
“Quello lì è ambizioso, ruffiano, pigro, egoista, ingrato, ce l’ha con me, farebbe di tutto per danneggiarmi” forse forse forse non è un dato di fatto, è una nostra interpretazione.
“Ci ho già provato, non mi è mai riuscita, io questa cosa già so che non fa per me, che non la otterrò mai” forse forse forse non è il nostro destino segnato, piuttosto è una presunzione, una supposizione basata su episodi del passato non necessariamente così significativi.
“Meglio un uovo oggi che una gallina domani” forse forse forse non è un comandamento divino bensì una massima popolare, una consolazione già pronta nel migliore degli scenari e una trappola cognitiva nel peggiore (vedi lo studio sui processi decisionali di Tversky e Kahneman).
Praticamente tutto quello che pensiamo, nel momento in cui non è un fatto dimostrabile, è un’opinione.
Magari ragionevole.
Magari plausibile.
Magari condivisibile e magari condivisa.
Ma pur sempre un’opinione a cui decidiamo di credere.
Un punto di vista che scegliamo di adottare.
Una prospettiva da cui ci impuntiamo a guardare tutto il resto.
E sapete, da coach, qual è il fenomeno più entusiasmante e commovente a cui ho il privilegio di assistere nelle migliori sessioni?
Vedere una prospettiva capovolgersi.
Io, questo fenomeno, lo chiamo “Lo Switch”.
Lo Switch a parole suona più o meno così: “è incredibile, è pazzesco, bastava girarla, bastava non ostinarsi a raccontarla in quel modo, bastava far fare una capriola a quelle quattro idee fisse che avevo per rimettere tutto in moto”.
E non a parole?
Beh, non a parole Lo Switch è un cambio di energia bellissimo, e soprattutto potentissimo.
Lo Switch è come un abracadabra, fa realizzare cose.
Per esempio, ci fa realizzare che un uovo di struzzo equivale a circa venticinque uova di gallina, e tutto a un tratto quel pollaio a cui tenevamo tanto non ha più la stessa attrattiva.
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